PREFAZIONE

Accetto ben volentieri l’invito dell’editore Sansoni a pubblicare fra i primi titoli della sua nuova collana «Universale» il mio primo libro La poetica del decadentismo, apparso nel 1936 presso la Casa Sansoni nella collana «Pubblicazioni della Scuola Normale Superiore di Pisa» e poi ripubblicato, spesso con varie ristampe, in diverse altre collane della Casa (Biblioteca Sansoniana Critica 1949, Civiltà europea 1962, Biblioteca Sansoni 1968, Nuova Biblioteca 1977, Nuovi Saggi 1984). Accetto ben volentieri, ripeto, questo significativo invito come graditissimo riconoscimento del valore critico e testimoniale di quel libro nella lontana epoca in cui apparve e insieme della sua perdurante resistenza all’usura del tempo (cosí vorace, specie nei confronti di testi di saggistica letteraria), accertata dalla sua continua circolazione fra gli studiosi ed i giovani e da testimonianze prestigiose anche in anni molto recenti.

Con la presente edizione, La poetica del decadentismo (il suo primo titolo intero era La poetica del decadentismo italiano, ma la precisazione nazionale cadde alla seconda edizione per dare maggior rilievo al concetto e al termine storiografico accompagnato alla latitudine della nozione metodologico-pragmatica) celebra (si potrebbe dire con linguaggio «matrimoniale» volutamente assai goffo) le sue «nozze d’oro» con l’editore e con il pubblico, visto che già l’anno scorso si erano compiuti cinquant’anni dalla sua apparizione nelle librerie.

Il libro – per disegnare, piú che una storia completa del suo lungo iter nella cultura italiana, e non solo italiana, una breve traccia di ricordi e di punti di riferimento miei ed altrui, forse non inutili, specie ai nuovi lettori – era in realtà stato scritto nel 1935 come tesi in letteratura italiana discussa in giugno con Luigi Russo e scritta di getto, senza pause, in pochissimi mesi (per questo il libro è rimasto sempre volutamente immutato – a parte aggiornamenti di riferimenti bibliografici – come frutto tanto autentico di un preciso periodo della mia vita, da non sopportare neppure ritocchi di scrittura), ma dopo una lunghissima e forse non insignificante incubazione e preparazione di letture italiane e straniere. In tanti altri progetti di quel periodo, abbozzi di lavoro, interessi culturali, letterari, etico-politici, per problemi e periodi diversi furono a lor modo ben utili e forse necessari alla precisa configurazione e maturazione di quel saggio che poi il mio maestro Luigi Russo propose a Giovanni Gentile, direttore della Scuola Normale, per la pubblicazione nella collana normalistica della Sansoni, con pieno consenso anche del mio precedente maestro pisano Attilio Momigliano (che ne presentò la pubblicazione appena avvenuta con un bellissimo articolo sul «Corriere della Sera») e quello pur pertinente di Giorgio Pasquali, eccezionale maestro-amico di giovani anche non afferenti direttamente alla sua disciplina.

In mezzo ad altro lavoro (solo in parte pubblicato negli «Annali della Scuola Normale Superiore» o nella «Nuova Italia» o in una rivista studentesca pisana) mi ero trovato alle prese con il problema del decadentismo sin dalla fine dei miei studi liceali a Perugia, quando avevo ingenuamente vagheggiato una monumentale storia dei «decadenti» come categoria metastorica e quindi di varie epoche e di varie letterature, mentre fortemente agiva su di me l’attrazione dannunziana che si confondeva con elementi nazionalistici e pseudosociali (la carta del Carnaro) e con spinte volontaristiche, iperidealistiche liceali (si spiritus pro nobis, quis contra nos?). Ma presto l’interferire dell’ambiente normalistico e della Università di Pisa con il complesso e mal ricostruibile irradiarsi delle letture letterarie e non, in una Bildung che ambiva e tendeva istintivamente alla completezza e integralità, sollecitò in me una rapida tramutazione che mi sottrasse all’immersione nel decadentismo e mi portò a liberarmi definitivamente da quell’attrazione letteraria e da quella Weltanschauung (e cosí insieme passai all’antifascismo militante e alla vera grande lezione della poesia leopardiana) cui aveva corrisposto solo uno strato epidermico e adolescenziale della mia vera natura, e che investí anche il mio vecchio ingenuo progetto sui decadenti, cambiando decisamente (con tutta una diversa formazione storiografica e metodologica) quella che era una nozione metastorica in un saldo strumento di precisazione storico-letteraria, e l’ambiguità fra attrazione della mia adolescenza e negazione da parte della storiografia ed estetica crociana o di tipo crociano, in una valutazione storicamente motivata ed esente da ipoteche moralistiche e tradizional-nazionali. Ed è chiaro quanto dovessi in proposito proprio alla lezione dei maestri ed amici a cui nell’edizione del ’36 avevo perciò rivolto un ringraziamento poi, chissà perché, caduto nell’edizione del ’49 e del ’61 e ripristinato nella premessa alla edizione del ’68 (mentre la dedica restò sempre ad Elena, alla mia compagna di sempre, cui mai potrei riconoscere appieno il debito con lei contratto fin dal 1933: «ti amerò in eterno: cioè finché avrò vita», secondo le appassionate e virili parole di Feuerbach): ringraziamenti ai miei due maestri pisani, Attilio Momigliano e Luigi Russo, a Giorgio Pasquali che oltretutto volle aiutare la mia giovanile inesperienza o trascuratezza assumendosi generosamente il compito della correzione delle bozze del libro, ad Aldo Capitini, amico e ideale fratello maggiore, perugino come me, e fondamentale guida nella mia giovanile formazione culturale ed etico-civile a Pisa e a Perugia dal ’31 e poi soprattutto dal ’33 quando egli fu espulso dal suo posto di segretario della Scuola Normale, perché non volle prendere la tessera fascista. Ad essi andrebbero aggiunti, in una mia descrizione, qui non eseguibile in questa occasione, dell’ambiente pisano 1931-1936, altri professori, fra cui l’originalissimo Matteo Marangoni e il michelstaedteriano Gaetano Chiavacci, e normalisti piú anziani come Claudio Baglietto, Claudio Varese, Carlo Ludovico Ragghianti, Delio Cantimori.

Comunque, per delineare brevemente il contesto culturale e sociale entro cui si collocò l’uscita del mio libro, possono essere utili due saggi usciti nel 1985 nel volume miscellaneo Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni (Bonacci, Roma), uno di Eugenio Garin, il quale mette in luce «1. l’avvio, in quello scritto, a una lunga e laboriosa indagine sulla nozione di “poetica” in contrasto con “la concezione estetico-critica crociana e idealistica”; 2. l’inizio, nel medesimo tempo, sul terreno politico, di una concreta attività contro il regime dominante», benché questo, con le guerre coloniali, stesse per toccare l’apice del suo consenso di massa; l’altro di Enrico Ghidetti, che riprospetta piú da vicino e con diversa angolatura l’incidenza del mio libro nella critica e metodologia italiana del 1936, rilevandone insieme la valenza intrinsecamente politica e antifascista, senza di cui la stessa rottura metodologica e critica non avrebbe avuto la forza di precisarsi e consistere.

Per una storia della «querelle» scatenata dal mio libro fra ’37 e ’38 fra i «letterati» italiani e con prevalenza di reazioni rabbiose fra ragioni ideologiche e letterarie[1], rinvio il lettore che ne voglia maggiori notizie all’attento saggio di Lucia Mastrofrancesco, Il dibattito critico negli anni trenta. La poetica del decadentismo di Walter Binni, in «Stagione», 1-2, 1976.

In realtà, mentre quella stessa querelle mi indicò ad alcuni direttori di riviste come attivo partecipe della discussione critica italiana, con il tempo la maggior parte delle idee e delle definizioni del mio libro furono accolte come pacifiche e scontate dalla opinio communis, sí che quando dopo la guerra (in cui anch’io avevo avuto ben altro da pensare) il libro era da tempo esaurito, me lo richiese Einaudi, ma Sansoni si affrettò, a quella notizia, a ristamparlo nel ’49 e poi nel ’61. Nell’accoglienza del libro intorno agli anni Sessanta si assiste ad una ancor piú prevalente e quasi pacifica accettazione della periodizzazione del decadentismo, della sua storicizzazione positiva, del suo modo di aprirsi alla letteratura contemporanea. Basti assumere come campione medio fra le varie storie e antologie della critica sul decadentismo quella di R. Scrivano: «La storia di una “poetica” in atto anche per l’interno contributo metodologico che recava, offriva una definizione storiografica del decadentismo che poteva essere variamente arricchita, ma che si doveva insieme considerare punto d’approdo di un generale movimento di indagine critica e rivelare come punto di partenza fondamentale... Si deve anche ricordare che l’indagine del Binni sul Decadentismo apriva le porte ad una nuova considerazione della poesia contemporanea illuminata da quel conquistato europeismo che veniva accentrato nel fenomeno decadentistico» (Il decadentismo e la critica, La Nuova Italia, Firenze 1963, 1974, p. 38).

Sulla spinta innovatrice del libro, si diramavano intanto rilanci e approfondimenti di periodi e autori inclusi nel mio disegno del decadentismo e delle sue origini: basti pensare al caso della scapigliatura per la cui collocazione e valutazione è stata piú volte sottolineata la «svolta» segnata dal mio libro del ’36; per questo capitolo di critica letteraria rimando a Filippo Bettini, La critica e gli scapigliati, Cappelli, Bologna 1975 (pp. 15 e 16) e Proposta d’interpretazione della critica della scapigliatura in «Rassegna della letteratura italiana» 1975 (p. 446) che vede come la lezione del ’36 venga pienamente utilizzata solo negli anni Sessanta.

E ancora, accanto alle ampie e illuminanti ricostruzioni di Claudio Varese e di Marcello Turchi[2], una diversità rispetto alla «poetica» del Russo e ad altre formulazioni di quella nozione in Anceschi (e Petrini) fu ben segnata da Italo Viola, che indagò il mio metodo e lavoro critico nel suo volume Critica letteraria del Novecento («Gli studi dello stile e della poetica», Mursia, Milano 1969, 19742) e che fortemente insisté sulla continuità e sullo sviluppo del metodo di poetica delineato nel mio primo libro e poi fino alla formulazione del ’63.

Per quanto riguarda la portata metodologica del mio primo libro, oltre al Viola, in anni piú recenti, proprio a cominciare da quello, si è rivelata la via di uno storicismo antiidealistico e per molti versi tutt’altro che estraneo ad una zona marxiana non puramente e rozzamente sociologica: si vedano a questo proposito F. Bettini, M. Bevilacqua nel loro volume Marxismo e critica letteraria in Italia (Editori Riuniti, Roma 1975) e, con piú massiccia e partecipata insistenza, Mario Costanzo, che in «Postille sul metodo storico-critico», in Estetica senza soggetto (Bulzoni, Roma 1976) vede nella Poetica del decadentismo, assai piú che nella poetica di Anceschi o in spunti già in atto di Della Volpe, nel 1936, l’avvio saldo di un metodo che egli ritiene centrale ed essenziale a superare l’impasse fra strutturalismo, semiologia e le varie tendenze di matrice marxista. Ciò che il Costanzo ha ribadito piú recentemente nel saggio omonimo nel volume miscellaneo dell’85 a me dedicato e già ricordato.

Del resto, da parte mia, nella premessa all’edizione del 1961 preciso era il riferimento alle posizioni vetero-marxiste che intorno al problema del decadentismo privilegiano la struttura sociale-politica sulla «sovrastruttura» letteraria e poetica. Era soprattutto il caso del fortunato libro del compianto Carlo Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano (Feltrinelli, Milano 1960), sul quale osservavo che «mentre avvalora molti dei miei risultati, rimanda, a me sembra, per lo stesso eccesso della sua interpretazione storico-sociologica, a un piú centrale e particolare esame della poetica e della poesia decadente nella loro specificità artistica, anche perché, ad onta dell’intenzione unitaria e della lotta aperta contro i “malgrado”, esso si risolve, a ben guardare, in un piú vistoso “malgrado” e in un’effettiva debolezza di integrazione fra storia e poesia se (tranne nel caso piú felice e particolare di Pirandello) la poesia dei poeti esaminati vien poi ritrovata proprio là dove quei poeti si liberano dal piú forte incontro fra i loro miti decadenti e le condizioni storiche cui essi si connettono; mentre nella impostazione monografica del volume troppo scarse sono la valutazione dei caratteri generali della poetica decadente e la storia del raccordo e della situazione particolare del decadentismo italiano nell’ambito del decadentismo europeo. Sicché, pur nell’esigenza, anche da me sempre piú sentita, di una storicizzazione del decadentismo piú ampia e generale di quella attuata nel mio libro giovanile, mi pare che questo mantenga pure un suo valore indicativo quanto alla centralità dei problemi studiati ed anche un sempre utile richiamo all’uso storico della nozione di decadentismo di fronte a certe sue estensioni astoriche come quella di Moravia circa il decadentismo in Manzoni, o come le discussioni non sempre a fuoco sul neodecadentismo nella letteratura e nell’arte contemporanee».

In gran parte questi miei autoavvertimenti e queste mie prese di posizione in relazione al fronte «marxista» di Salinari o, fra gli altri, di Leone De Castris (Decadentismo e realismo, Bari 1959; poi Il decadentismo italiano, Bari 1974) investivano proprio la mia nozione di poetica e il suo sviluppo nell’esercizio critico in corso in quegli anni. Sicché nel mio saggio metodologico Poetica, critica e storia letteraria (Laterza, Bari 1963) precisavo la mia posizione circa il mio primo libro e la sua prospettiva metodologica e operativa:

Lo studio di poetica mi si prospettò, nella zona giovanile degli anni intorno al ’35, come possibilità di ricostruzione della storia letteraria non solo nei suoi capitoli monografici-storici su singoli poeti, ma come storia di epoche innervate nell’impostazione e sviluppo di poetiche, come ricostruzione di poetiche generali e di poetiche-poesie personali, in una prospettiva unitaria e articolata che poi mi si è meglio chiarita con la nozione di tensione poetica e di poetica come tensione alla poesia.

Cammino segnato da alcune tappe fondamentali nel mio lavoro e nel significato generale di esso. Anzitutto la ricostruzione della poetica del decadentismo italiano (1935-36) che, mentre concretamente fruttava una prima delineazione e sistemazione del vasto periodo che corre dalla decadenza del romanticismo alle origini della letteratura contemporanea, e mostrava cosí la sua concreta capacità di fare storia, superava l’impasse di un giudizio polemico sul decadentismo; laddove essa pur non perdeva di vista – evitando la semplice squalifica moralistica – i margini vistosi dell’estetismo, della retorica superomistica nei suoi corrispettivi e nelle sue conseguenze civili e morali, tanto che il mio libro venne attaccato su quel piano per il suo «europeismo» e per le sue implicazioni politiche. Certo, rivedendo le cose dalla prospettiva dell’oggi, ben avverto le sue mancanze e inadempienze nei confronti della narrativa decadente o del teatro pirandelliano e nei confronti del passaggio fra romanzo verista e romanzo decadente, sia nella diagnosi del fallimento civile e democratico degli esiti del Risorgimento sia nell’approfondimento dell’analisi della realtà esterna e interiore; sento che i suoi risultati andavano e vanno integrati, arricchiti, e approfonditi. Ma la prospettiva era giusta e innovatrice e, pur con incertezze anche metodologiche (non direi piú che si fa storia solo delle poetiche e non della poesia), offriva un modulo storiografico di valore generale e innestava coerentemente la ricostruzione, ad esempio, della poetica e poesia dannunziana entro lo sviluppo di tutta la complessa tensione di un’epoca.

Proprio a parzialissimo tentativo di risposta in positivo a queste accresciute esigenze e denunce di giudizi da me cambiati (si pensi al caso del Carducci nel saggio del ’57 edito nel ’60 da Einaudi nel volume Carducci e altri saggi e alla tanto cresciuta valutazione, rispetto ad Ungaretti, di Montale, comunque già fortemente individuato nel libro del ’36: Montale me ne restò sempre grato), che nascevano anzitutto dall’interno sviluppo del mio metodo, stesi nel 1975 un brevissimo abbozzo di ripresa del problema e dell’estensione del decadentismo europeo e italiano in una voce per l’Enciclopedia Universale, UNEDI, Milano (IV, 1974).

Nella vita «attiva» del libro – mentre esso appoggiava tuttora le varie nuove ricostruzioni e articolazioni dei movimenti compresi nel vasto arco del decadentismo (scapigliatura, estetismo, crepuscolarismo, futurismo) e degli autori studiati – rientrava anche la sua penetrazione in una molto piú vasta cerchia di lettori, specie studenti universitari e liceali, con la sua ripubblicazione nel ’68 nella Biblioteca Sansoni, economica a grande tiratura (ne furono fatte diverse ristampe), sí che allora se ne affermò l’etichetta un po’ abusata di un «classico della critica» e si poterono argomentare ragioni della sua «attività» assai complessa, come fece Walter Pedullà in una recensione sull’«Avanti» del 15 settembre 1966, con l’apposito titolo di Un classico in attività, valutando il significato del libro non solo nella sua qualità di «organico bilancio dei progetti e dei risultati di circa cento anni di attività poetica», ma soprattutto quale stimolo (nel clima entusiastico proprio di quel periodo letterario civile) alla letteratura e alla critica italiana contemporanea in collaborazione con le altre letterature europee (antidoto contro il vecchio vizio del provincialismo e del moderatismo conservativo). Il libro infatti «comunica, al di là delle stesse intenzioni dell’autore, un suadente e perentorio invito a non farsi lasciare indietro dalle ricerche piú avanzate della letteratura europea e a correre in coraggiosa e ardita competizione con pari possibilità di “arrivare primi” come ormai da molto tempo non succede agli scrittori italiani: ovviamente nel senso, tutt’altro che sciovinistico, di portare contributi ideologicamente e linguisticamente inediti alla comprensione e alla modificazione del mondo d’oggi».

Poi, con il passare di altri decenni e con il persistere della «attività» editoriale e didattica del libro se ne venne sempre meglio assicurando insieme la valenza di strumento storico-critico e la particolare qualità di testo storicamente importante nella critica situazione degli anni Trenta (incipiente crisi del neoidealismo crociano, crisi etico-politica, crisi della letteratura tradizionale: crisi dunque di metodologia, di critica, ma anche di prassi letteraria e civile).

Cosí che quando nel ’77 il libro ricomparve nella collana «Nuova Biblioteca» (a un quarantennio dalla prima edizione) la sua ripubblicazione fu salutata insieme come una non esausta interpretazione storico-letteraria e come sintomatica testimonianza di epoca, ma fortemente collegata con il presente. Come avviene, ad esempio, nel caso di un pezzo del 5 novembre 1977 su «Tuttolibri» di Angelo Jacomuzzi, significativa e autentica comprensione di quello che il libro aveva rappresentato per le generazioni di giovani degli anni Quaranta-Cinquanta e poi anche per i loro attuali allievi, e non su un piano unicamente didattico-specialistico. «Ricordo il mio incontro negli anni di liceo, in un angolo della provincia piemontese caro e addormentato, eppure vivo delle nostre ansie, delle nostre speranze e delle nostre incertezze, ricordo l’incontro con il libriccino del Binni, La poetica del decadentismo, ancora nella prima edizione della Scuola Normale di Pisa. Fu tra gli incontri importanti, in quel confuso annaspare senza guida alla ricerca di una costruzione della cultura, come l’Americana di Vittorini e, su un altro versante, gli Ossi di Montale e il Processo di Kafka». E d’altra parte giustificando il ricordo biografico come modo di «risentirne il significato nella prospettiva intercorsa, quasi una personale risposta alla richiesta di lettura che il Binni sembra sollecitare nella Premessa a questa nuova edizione, collocando quegli anni di lavoro ‘fervido e alacre’ come avvio di una esperienza critica, civile e politica senza diaframmi, come primo segno di una scelta ideale e di esistenza», intendeva – pur nelle nuove esigenze di arricchimenti e cambiamenti ben avvertiti dallo stesso autore – sentire il libro non come «l’eco di una stagione morta», ché esso «continua a stimolare» anche per la sua qualità di coraggio nel tracciare vasti itinerari, sicché «se editore e autore hanno inteso, nel dare il giro di boa del nono lustro a questa Poetica del decadentismo, saggiare la resistenza di una testimonianza d’epoca e di una proposta critica, hanno fatto, a mio parere, i conti giusti».

Ripeto infine che in questa nuova edizione nella Universale Sansoni ripubblico il testo del 1936 ne varietur perché lo considero sempre piú, insieme coi miei lettori piú avvertiti, non solo come contributo fondante circa la nozione e storicizzazione del decadentismo tuttora capace, ritengo, di utilmente stimolare nuovi studi sull’argomento, ma come la prima formulazione di un metodo (lo studio di poetica e il metodo storico-critico) che ha avuto una sua storica datazione e come testimonianza, da non alterare neppure nei modi della scrittura, di un’epoca lontana della mia vicenda personale (intellettuale ed umana) e, ciò che piú importa, della storia complessa e difficile (alla fine si può ben dire profondamente drammatica) della mia generazione o, per precisione, di una parte di essa, che non tollerò di rifugiarsi nella pura evasione letteraria, che dette alla letteratura l’unico senso impegnativo e totale culturalmente e civilmente che solo può distinguerla dal giuoco ripugnante dei furbi, degli arrivisti, dei «tecnici» senza animo e senza vita.

Roma, 4 maggio 1987


1 Qui mi limito a inviare alla nota bibliografica in appendice al volume.

2 C. Varese, «Walter Binni», in Cultura letteraria contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi 1951. M. Turchi, «Walter Binni», in I critici, Marzorati, Milano 1969.